Monitor passivi vs. attivi: facciamo chiarezza
Da qualche tempo i monitor passivi sono considerati quelli che suonano meglio, almeno in certi giri. E così chi vuol comprare un nuovo paio di diffusori da studio finisce per dire “passivi tutta la vita”, spesso senza neanche sapere perché. Ma siamo sicuri che abbia ragione? Vediamolo tecnicamente…
Il mondo dell’audio va a mode. A “parole d’ordine” che prescindono dalla realtà tecnica. A “pietre filosofali” che vogliono risolvere problemi complicati con un pensiero semplice.
Finisce così che in un certo momento storico tutti ripetono una certa formuletta spesso senza neanche sapere perché. “Lo dicono tutti quindi sarà vero”, no?
La parola d’ordine di questi ultimi anni nel campo del monitoraggio da studio è sicuramente “passivo”: parafrasando il Generale Custer, pare che l’unico monitor buono sia il monitor passivo. Ovviamente le cose sono ben più complicate di così e nel corso di questo articolo capiremo:
- come sono fatti i diffusori passivi e quelli attivi;
- quali differenze ci sono, e se tali differenze giustificano una differenza di suono;
- da dove deriva l’attuale trend a favore dei monitor passivi.
Com’è fatto un diffusore acustico
Un diffusore acustico è generalmente costituito da una cassa che contiene uno o più altoparlanti. L’altoparlante è un trasduttore, ovvero un dispositivo che si occupa di trasdurre un tipo di energia (quella elettrica) in un altro tipo di energia (quella acustica):

Poiché in genere un solo altoparlante non riesce a riprodurre con lo stesso livello di fedeltà tutte le frequenze della gamma audio da 20 a 20.000 Hz è necessario usarne due o più, specializzando ciascun altoparlante per riprodurre al meglio una data banda.
Quando si impiega un altoparlante specializzato per i bassi (detto woofer) e uno per gli alti (detto tweeter) si ottiene un sistema a due vie: questo vuol dire che la gamma audio viene indirizzata a due strade diverse, e il “vigile urbano” che si occupa di mandare ciascuna frequenza all’altoparlante giusto è il circuito di crossover. Esso agisce attraverso un filtro passa-alto che manda al tweeter solo la parte di gamma audio posta al di sopra della frequenza di taglio (o frequenza di crossover), più un filtro passa-basso che al contrario manda al woofer solo i segnali sotto a tale frequenza.
Naturalmente è possibile costruire anche diffusori che impieghino altoparlanti ancora più specializzati: se per esempio si usa un woofer per i bassi, un midrange per i medi e un tweeter per gli alti si ottiene un sistema a tre vie:

Perché serve un amplificatore, e dove sta
Il segnale elettrico in uscita da un generatore audio (mixer, sintetizzatore, interfaccia audio, lettore CD, ecc…) vale in genere tra i 100 milliVolt e i 2 Volt (il cosiddetto “livello linea”), ed è troppo debole per pilotare direttamente un diffusore acustico (che lavora a “livello di potenza”). È dunque necessario un dispositivo che raccolga l’uscita a livello linea del nostro generatore e la amplifichi fino a portarla a livello di potenza. Tale dispositivo si chiama ovviamente “amplificatore” e il suo inserimento nella catena audio dà luogo alla seguente configurazione:
Questo schema è valido sempre, non esiste sistema audio che possa prescindere da esso. Ciò che può cambiare di caso in caso è che i singoli “pezzi” che lo compongono posso stare dentro una box fisica diversa e generare così confusione.
Se per esempio abbiamo una tradizionale catena hi-fi i tre elementi sono ben distinti:
Se però abbiamo in mano uno smartphone con un paio di cuffie, la sorgente è nei circuiti di lettura dei file dentro il telefono, l’amplificatore nel circuito di potenza ancora del telefono, mentre i trasduttori sono le cuffie:
Prendiamo adesso il nostro cellulare e colleghiamolo a una cassa Bluetooth esterna: la sorgente è sempre dentro il cellulare (gli stessi circuiti di lettura dei file di prima), mentre amplificatore di potenza e trasduttori sono entrambi dentro il diffusore Bluetooth.
Insomma, un amplificatore c’è sempre, cambia solo dentro quale scatola è messo!
Com’è fatto un diffusore attivo
Abbiamo visto sopra che un diffusore passivo è costituito da una box che contiene un paio di altoparlanti e il crossover. Un diffusore attivo aggiunge a tale configurazione lo stadio di amplificazione, per cui teoricamente non vi è nessuna differenza rispetto a una catena “ampli + diffusore passivo”. Insomma dovrebbe essere che:

In realtà una differenza tecnica c’è, ed è anche importante: nei diffusori passivi si impiega un circuito di crossover che lavora a livello di potenza (crossover passivo), mentre nei diffusori attivi si usa in genere un crossover che agisce a livello di linea e poi manda il suo segnale a due amplificatori separati, uno per gli alti e uno per i bassi. Questo schema è detto “multiamplificazione attiva” e può offrire il vantaggio di specializzare gli amplificatori delle due vie in modo che ognuno sia progettato per riprodurre al meglio la gamma di frequenze cui è dedicato. In genere anzitutto l’amplificatore dedicato alla via alta è di minore potenza perché nella musica reale la distribuzione energetica è calante man mano che si sale, e poi alcuni costruttori usano un ampli più robusto ma meno raffinato per i bassi e un più dettagliato e fedele per gli alti. Questa, va detto chiaramente, non è assolutamente una regola fissa ma solo una delle strade che si possono percorrere grazie alla multiamplificazione attiva: altri costruttori impiegano amplificatori identici per le due vie nell’ottica di perseguire lo stesso suono su tutta la gamma audio almeno per quanto concerne l’amplificazione.
Attivo vs. passivo: chi vince?
Come sempre in campo audio, vi sono sostenitori della superiorità tecnologica di una soluzione e sostenitori della superiorità dell’altra. E come sempre, non esiste una verità assoluta ma piuttosto due modi diversi per arrivare allo stesso risultato privilegiando ora un aspetto prestazionale e ora l’altro. In linea di principio tenere l’ampli fuori (diffusori passivi) o metterlo all’interno della cassa (diffusori attivi) di per sé non cambia niente se si usano gli stessi componenti.
Il punto piuttosto è che questo non accade praticamente mai: è anzitutto rarissimo che dello stesso diffusore esistano sia la versione attiva che la passiva, e quando questo succede quella attiva usa dei circuiti di amplificazione che in genere non sono disponibili anche in forma di ampli esterno per poter fare un confronto. Ma soprattutto: in genere i diffusori passivi sono monoamplificati da un unico ampli esterno, mentre quelli attivi sono multiamplificati con un ampli per ciascuna via, e questo rende impossibile confronti diretti.
Andiamo quindi verso due tipologie ben distinte di prodotti, ciascuna coi suoi pro e i suoi contro: li vediamo tra un attimo.
I problemi dei diffusori passivi
Per quello che riguarda i diffusori passivi vi è anzitutto il problema della scelta dell’amplificatore “giusto” poiché ogni diffusore ha parametri elettroacustici diversi (impedenza di carico e necessità di potenza per essere pilotato al meglio) che rendono variabile l’interfacciamento con diversi amplificatori.
Quando vi dicono che per esempio un dato diffusore ha “impedenza di 8 Ohm e potenza di 100 Watt”, bene sappiate che quei due numeri non vogliono dire assolutamente nulla!
Anzitutto l’impedenza dichiarata è solo un valore nominale, giusto per dare un riferimento, ma nella realtà il suo valore assoluto (detto modulo) può oscillare pesantemente alle varie frequenze della banda audio. Quasi sempre c’è un picco di 10/15/20 Ohm alla frequenza di risonanza alla quale è stata accordata la cassa, e subito prima o dopo il valore dell’impedenza può scendere pericolosamente verso valori di 4, 3 o anche 2 Ohm prima di risalire. Valori di impedenza molto bassi possono portare i transistor finali dell’amplificatore vicino al cortocircuito (rappresentato dal valore di 0 Ohm) e quindi farlo lavorare in una zona per lui molto stressante perché gli richiede l’erogazione di tanta corrente.
Ma non basta: l’impedenza non è definita solo dal modulo ma anche dal suo argomento, ovvero dalle deviazioni verso la zona induttiva o capacitiva rispetto al comportamento di una resistenza perfetta. Anche vaste oscillazioni dell’argomento possono mettere in crisi l’ampli, specialmente quando si verificano nello stesso intorno di frequenze in cui il modulo si abbassa. Non tutti gli ampli possono farcela a pilotare lo stesso diffusore nello stesso modo perché magari a una certa potenza erogata su una data impedenza si “fermano” per sopraggiunti limiti dell’alimentazione o per l’intervento delle protezioni che hanno il compito di mantenere i transistor all’interno della zona di loro sicuro funzionamento.

Anche il dato di “potenza” (notare virgolette…) di un diffusore è un numero sostanzialmente senza senso: un diffusore passivo è appunto un oggetto passivo, non produce potenza come un amplificatore, ma invece la consuma per produrre suono. Il dato di “potenza” di un diffusore non è dunque un dato realmente misurabile con precisione ma solo un valore cautelativo/indicativo che dice quanta potenza al massimo quel diffusore è in grado di reggere, di consumare senza distorcere e senza rompersi. Distorsioni e guasti però non si verificano sempre per un livello di potenza ben preciso ma dipendono invece dalla frequenza del segnale audio e dalla durata dello stesso: se applico una sinusoide di 10.000 Hz amplificata con 100 Watt a un tweeter per cinque minuti quasi sicuramente lo brucio, ma se applico un normale segnale musicale con picchi di 100 Watt che però durano 20-30 millisecondi non brucio nulla perché la distribuzione delle frequenze e la durata dei vari segnali non riescono a surriscaldare la bobina del tweeter tanto da romperlo. Si verifica così che diffusori per i quali il costruttore prudenzialmente ha indicato la “potenza massima” nel valore di 50 Watt finiscano per lavorare benissimo con ampli da 100/200 Watt puliti se usati con un minimo di criterio, e anzi necessitino di potenze elevate per esprimersi al meglio anche se sono piccoli in modo da esprimere il massimo dello spunto dinamico di cui sono capaci. È proprio il caso degli storici Yamaha NS10 che da sempre prediligono ampli grandi e buoni, mentre vanno in crisi e bruciano facilmente i tweeter con ampli da 40 Watt tirati per il collo e portati in saturazione (la saturazione produce componenti di distorsione ad alta frequenza che sovraccaricano innaturalmente il tweeter). Non a caso tra chi ha adottato gli NS10, e più recentemente i Mission LX-2, vi è un’ampia casistica di tweeter bruciati.
Con i diffusori passivi vi è dunque il problema di azzeccare la scelta dell’amplificatore giusto, anche se di solito un ampli con tanta potenza, elevata velocità e risposta lineare va bene sempre. Un amplificatore così però costa tanto, per cui talvolta si finisce per ripiegare su modelli meno prestanti che possono non pilotare al meglio i diffusori passivi che abbiamo scelto. Non a caso la tematica dell’abbinamento ottimale ampli-cassa è da sempre centrale tra gli appassionati di hi-fi.
Un altro problema dei diffusori passivi può risiedere in circuiti crossover progettati male e/o realizzati al risparmio: un crossover passivo assorbe (= “spreca”) sempre una parte della potenza disponibile in uscita dall’ampli per il suo stesso principio di funzionamento, ma se disegnato male può indurre anche rotazioni di fase sgradevoli all’ascolto. Non a caso alcuni produttori hi-end preferiscono da sempre crossover semplici e con filtri a bassa pendenza ma di maggiore musicalità. Questa ovviamente non è una regola assoluta ed esistono ottimi diffusori anche tra quelli con crossover complessi, ma in tal caso essi devono essere realizzati a regola d’arte: i condensatori devono essere veloci e puliti se non si vuol correre il rischio di rendere il suono più lento e fangoso, mentre le induttanze devono essere preferibilmente avvolte in aria invece che su nucleo di ferro (come quella a sinistra nella foto sottostante) perché queste ultime tendono a saturare e quindi a generare distorsione. Tutte queste cose però costano, e un diffusore economico potrebbe avere un crossover fatto al risparmio che ne penalizza le prestazioni.
I problemi dei diffusori attivi
Gli attivi non soffrono dei problemi sopra evidenziati per i diffusori passivi: l’amplificatore “giusto” per gli altoparlanti impiegati è già quello scelto irrevocabilmente dal progettista e messo all’interno del box, e l’uso del crossover attivo elimina perdite di potenza e qualità che il crossover passivo potrebbe inserire nel sistema.
Tutto perfetto dunque? Sì, ma solo in apparenza: le maggiori critiche ai sistemi attivi attualmente in circolazione riguardano infatti proprio la scelta degli amplificatori interni montati dai progettisti. Per ragioni di costo infatti, specialmente nelle serie più economiche, si usa non già “il miglior amplificatore per quegli altoparlanti” ma piuttosto “il miglior amplificatore per quegli altoparlanti purché entro una certa fascia di costo”. Anche l’ingombro di uno stadio di amplificazione fatto come si deve può essere ritenuto eccessivo, e il risultato dei compromessi adottati è che spesso vengono adottati dei chip di potenza integrati e degli stadi di alimentazione risicati che sono assai meno prestanti di un classico amplificatore esterno realizzato con transistor discreti e tutti i crismi.

Intendiamoci: chi vi offre a 300 Euro una coppia di buoni monitor amplificati (300 Euro in cui ci sono già l’IVA, il guadagno di tutta la catena distributiva, il costo del mobile e degli altoparlanti) non può darvi che questo: è impensabile pretendere da un simile sistema di monitoraggio una amplificazione della stessa qualità di un ampli esterno che costi 500 Euro solo lui.
Il problema è però che la scelta di stadi di amplificazione di qualità non eccelsa può essere fatta anche su sistemi di maggior costo, e questo è un peccato perché una cattiva amplificazione può far suonar male anche un buon sistema di altoparlanti.
La recente comparsa di moduli di amplificazione in classe D di elevata qualità però sta probabilmente contribuendo a risolvere tale stato di cose: la classe D è intrinsecamente più efficiente nel dare potenza “buona” rispetto alla classe AB normalmente usata negli ampli tradizionali, e quindi si possono realizzare circuiti che costino poco ma che suonino bene. È vero che spesso in passato “classe D” è stato sinonimo di “suono così così”, ma costruttori di hi-fi di rango (Arcam, NAD, Technics) hanno dimostrato con le realizzazioni più recenti che tali pregiudizi non hanno più ragione di esistere.
“Ma allora… Perché tanta differenza di prestazioni tra attivi e passivi?”
Negli ultimi due anni ho osservato a lungo i prodotti che venivano esaltati o vituperati dalle due rispettive categorie di sostenitori del monitoraggio attivo e di quello passivo, e sono giunto a una conclusione personale importante: si tratta di pubblici diversi che stanno giudicando prodotti diversi con metri di giudizio diversi.
I monitor attivi sono prodotti realizzati da case con un profondo radicamento nel settore commercialmente definito “MI”, ovvero Musical Instruments. Si tratta di sistemi di monitoraggio all-in-one che sono mirati soprattutto agli home e personal studio, e quindi a un pubblico che con quei monitor deve fare tante cose: comporre, produrre, fare sound design, registrare suoni sintetici e suoni acustici, mixare, masterizzare un prodotto demo o di basse tirature. Questo pubblico ha bisogno di sistemi facili da scegliere, facili da usare, con buone protezioni che tutelino anche i non rari casi in cui parte un feedback digitale interno alla DAW o un kick-drum sparato a 0 dB per errore. E sempre questo pubblico cerca sistemi adatti a dare fedeltà ma anche un briciolo di emozione nelle fasi iniziale della lavorazione musicale quando si compone, si provano beats e suoni diversi, e dunque serve entrare in empatia col messaggio musicale. È innegabile che questi sistemi offrano una prospettiva di ascolto ravvicinata e proiettata in avanti, ove spesso il dettaglio ha la precedenza sul messaggio di insieme, ma quando fai l’editing di un campione devi sentire il click più piccolo e quando scegli un preset di riverbero ne devi sentire la coda in dettaglio.

Discorso diametralmente opposto pare valere per i diffusori passivi attualmente più celebrati: benché usati come monitor, essi sono in realtà quasi sempre modelli di provenienza hi-fi, pensati per un ascolto che prevede maggiore distanza tra diffusore e ascoltatore, e sono ovviamente finalizzati a dare un’immagine meno proiettata in avanti e più diffusa in ambiente grazie a una gestione diversa della dispersione angolare. È probabilmente per questo che molti degli estimatori del monitoraggio passivo sono presenti tra i mixing engineer puri, che evidentemente cercano una prospettiva sonora più globale e più adatta a realizzare il balance di un prodotto già pronto per l’ascoltatore finale. Insomma, i passivi sono graditi da costoro proprio perché sono casse hi-fi che ripropongono il suono che ascolterà l’utente finale, e in tal senso aiutano il fonico ad avvicinarsi facilmente a tale risultato.

Questa conclusione, che ribadisco non essere una regola su cui tutti concordano ma una valutazione personale, è adatta soprattutto alla fascia bassa di monitor, diciamo entro i 2.000 Euro: orami ho capito che i fonici che consigliano i vari Mission LX-2, Pylon Diamond Monitor, KEF LS50 e via discorrendo puntano a un suono da “end-user” che è totalmente diverso da quello dei monitor attivi di ADAM, JBL, Kali, ecc… Attenzione, ho scritto “diverso” e non migliore o peggiore: siamo davanti evidentemente a una diversa destinazione d’uso e quindi tra prodotti diversi tra loro non c’è confronto, non ci sono vincitori e vinti.

Non ritengo invece che le considerazioni sopra riportate sui diffusori attivi siano applicabili a prodotti eminentemente pro come i PSI, i Genelec the Ones (serie 83×1), alcuni modelli ATC o i particolarissimi Barefoot: qui siamo davanti a sistemi di monitoraggio di valore assoluto e liquidarli con un “tutti gli attivi suonano uguali” sarebbe semplicemente superficiale. Sono piuttosto sistemi destinati a installazioni realmente professionali ove ogni studio-designer farà le sue scelte in base al concetto personale che ha del monitoraggio: e già sappiamo che tale concetto, tale visione è declinabile in tante modalità diverse tutte ugualmente valide.
Insomma, tra attivi e passivi chi vince?
Nessuno.
Scrivere cose come “passivi tutta la cazzo di vita” (come mi è capitato di leggere su un social media) non ha alcun senso e denota un approccio manicheo e superficiale alle diverse tecnologie disponibili.
Ogni utente deve adottare il monitor che più si adatta al proprio modo di lavorare, agli scopi che si propone di raggiungere col proprio personal studio, alle fasi di lavorazione cui dedica la maggior parte del tempo.
Esistono ottimi prodotti in entrambe le categorie, l’importante è comprendere che l’attuale moda “passivo tutta la vita” è appunto una tendenza priva di argomenti assoluti. Chi scrive ritiene che una coppia di monitor attivi come per esempio i Kali LP-6 o a livello superiore i Focal Shape 65 soddisfi la stragrande maggioranza delle necessità di un producer con uno studio domestico o comunque personale, ma al contempo non disconosce il valore che può avere una coppia di economicissimi Mission LX-2 nel fare un mix che poi trasli bene su tanti impianti.
Adesso tocca a voi capire da che parte state.