Dove sta andando Mr. Smith?
La recente reissue del Prophet-5 è l’occasione per chiedersi ancora una volta quali sono i piani del suo creatore, l’ineffabile Dave Smith. Lo avevo già fatto nel 2005 con questo articolo che vi ripropongo nel 2020: in esso si ripercorreva la storia dei suoi primi 40 anni di lavoro e delle sue macchine più mitiche.
Il nome di Dave Smith potrà non dire molto agli appassionati più giovani, eppure c’è una buona probabilità del 99% che anche loro abbiano avuto a che fare con qualche prodotto del vulcanico progettista americano: il buon Dave ha infatti firmato i synth della serie Prophet, il Korg Wavestation, il Seer Systems Reality (ovvero il primo sintetizzatore software commerciale) e perfino le specifiche di base del MIDI. Insomma, appurato che questo Mr. Smith non è uno qualunque, andiamo a ripercorrere le tappe principali della sua carriera attraverso i prodotti che sono usciti dalla sua matita.
Il periodo Sequential
La Sequential Circuits Inc. venne fondata da Dave Smith nel 1977, e allo stesso anno risale il progetto del sintetizzatore Prophet-5. La fase della progettazione durò nove mesi, durante i quali Dave sviluppò la macchina col supporto di John Bowen e Dave Rossum, mentre lo strumento vero e proprio entrò in commercio l’anno successivo al prezzo di 3.995 dollari di allora. Si trattava di uno dei primissimi synth polifonici programmabili, addirittura il primo secondo alcuni: in pratica, cinque circuiti di sintesi monofonici completi di tutto e realizzati in tecnologia analogica (le cosiddette “voci”) venivano messi sotto il controllo di una logica digitale che analizzava continuamente lo stato di tastiera e assegnava dinamicamente i tasti premuti alle voci.
Il Prophet-5 utilizzava due VCO e un generatore di rumore, un filtro passa-basso a 24 dB/Oct e due inviluppi ADSR, ovvero quello che si sarebbe poi fissato come l’archetipo del polysynth in tecnica analogica sottrattiva. Ufficialmente ne vennero prodotti solo 6427 esemplari nel periodo compreso tra il 1978 e il 1984: la Rev1 (numeri di serie tra 0001 e 0182) era assemblata manualmente e utilizzava componentistica SSM, la Rev2 (SN compresi tra 0184 e 1299) venne reingegnerizzata per una costruzione più industriale e usava ancora i pregevoli chip SSM, mentre la più diffusa e stabile Rev3 (SN compresi tra 1300 e 6427) segnò l’ingresso dei più affidabili chip Curtis-CEM. Il Prophet-5 è stato adottato da numerosissimi musicisti famosi dell’epoca, dai Kraftwerk ai Duran Duran, da Peter Gabriel e Phil Collins a Jean-Michel Jarre.
Il Prophet-10 fu la versione a 10 voci e due manuali del modello 5, ma a causa del peso elevato, il prezzo molto impegnativo e soprattutto una stabilità problematica conobbe una scarsa diffusione. Seguirono poi ulteriori evoluzioni del progetto base: il Prophet-600 del dicembre 1982 fu il primo strumento a incorporare il MIDI e riproponeva l’architettura del modello 5 a un prezzo circa dimezzato, mentre il lussuoso Prophet T8 del 1983 era sostanzialmente un 5 con una fantastica tastiera a 76 tasti, risposta alla dinamica, aftertouch polifonico (in seguito implementato su pochissimi altri synth, indipendentemente dal costruttore), interfaccia MIDI.
Tralasciamo in questa sede il politimbrico Six Trak, la batteria-sequencer Studio 440 e gli sfortunati campionatori Prophet-2000 e 3000, tutti strumenti che testimoniano comunque la caparbia volontà di Smith di non cedere le armi ai giapponesi sulle tipologie strumentali che in quel periodo si andavano affermando. Ci concentriamo invece qui sul Prophet VS del 1986: era quello un synth che segnava l’intenzione di andare oltre la mera architettura sottrattiva e introduceva il concetto di sintesi vettoriale. Quattro oscillatori digitali per ciascuna delle otto voci disponibili attingevano a una wavetable di 128 forme d’onda single-cycle campionate a 12 bit e finivano in un filtro analogico di produzione Curtis. Già questo avrebbe garantito un suono molto vario e interessante, in cui le componenti digitali si stemperano e si addolciscono grazie al VCF analogico, ma la sintesi vettoriale permetteva anche di variare dinamicamente il mix tra i quattro oscillatori tramite un joystick, oppure tramite un Mix Envelope che poi permetteva anche il loop della funzione.
Ancora oggi il Prophet VS, ignorato dalla massa, è un synth molto apprezzato e rispettato dai professionisti, che si contendono a colpi di migliaia di Euro gli esemplari rimasti in circolazione.
La nascita del MIDI
Già nel 1979, grazie alla nascente tecnologia dei microprocessori, alcune case produttrici di synth come Oberheim, Rhodes/Chroma e Roland crearono dei protocolli per interfacciare digitalmente i loro prodotti, permettendo così il trasporto di informazioni polifoniche di nota e superando le limitazioni del protocollo analogico CV/Gate. Questi sistemi erano tuttavia limitati alla compatibilità fra modelli della stessa casa, quando non addirittura capaci di far comunicare solamente più esemplari dello stesso strumento. Nel 1981 Dave Smith, a seguito della presentazione di un suo white paper in materia alla AES Convention, ebbe l’idea di creare un panel di progettisti di diverse case americane e giapponesi, allo scopo di definire un protocollo universale di comunicazione tra strumenti controllati digitalmente. Inizialmente chiamato UMI (Universal Music Interface), esso diventò ben presto il MIDI che ancor oggi ci accompagna senza sostanziali revisioni, e il cui acronimo fu coniato proprio da Dave Smith. Ancor oggi siamo fermi alla release 1.0 delle specifiche MIDI, non già perché in questi vent’anni non sia stata fatta modifica alcuna al protocollo, ma perché queste non sono mai state così sostanziali da giustificare la promulgazione del sempre favoleggiato e mai apparso MIDI 2.0. Rimane il fatto che il MIDI è uno dei pochissimi protocolli informatici a essere rimasto sostanzialmente invariato per così tanto tempo: pur non essendo assolutamente privo di difetti – uno per tutti: la sua natura seriale impedisce che le note di un accordo vengano eseguite effettivamente nel medesimo istante – il MIDI è sicuramente “un coso” che ha dimostrato di funzionare molto bene e ha cambiato il modo di suonare di noi tutti. Onore a Mr. Smith!
Il periodo “giapponese”
Quando, nel 1987 la Sequential fu acquistata da Yamaha e da questa soppressa come marchio autonomo, Dave Smith andò a lavorare proprio per quei giapponesi che, con l’aggressività commerciale di una politica basata sul prezzo e con la stabilità dei loro prodotti, avevano decretato la morte della sua azienda e di quelle di altri illustri colleghi come Bob Moog e Tom Oberheim.
Dave divenne così presidente della DSD, azienda che faceva ricerca e sviluppo per Yamaha, e qui ebbe modo di sviluppare studi sulla sintesi a modellazione fisica e sulla sintesi software, oltre a prodotti commerciali come l’SY22 e il TG33 che riproponevano il concetto di sintesi vettoriale. È interessante notare come ancor oggi Yamaha possieda i diritti sui nomi Sequential e Prophet.
In seguitò Dave Smith guidò il gruppo di ricerca e sviluppo statunitense di Korg (a quell’epoca Korg e Yamaha erano strettamente legate) e il risultato di quel periodo fu la progettazione del Wavestation del 1990: costruita in tecnica interamente digitale come si conviene a un synth giapponese destinato a fare i grandi numeri, il WS riprendeva la tecnica di sintesi vettoriale del Prophet VS, utilizzando ancora quattro oscillatori che scorrevano una wavetable e che erano miscelabili dinamicamente fra loro attraverso un joystick.
Il progetto Wavestation introduceva però un’ulteriore, importante novità: la possibilità di leggere più forme d’onda in sequenza, permettendo così l’ottenimento di timbri cangianti e assolutamente caratteristici. Il WS rinunciava purtroppo ai filtri risonanti (Korg non aveva in quel periodo la tecnologia per implementarli digitalmente a prezzi contenuti) ma nonostante ciò ottenne brillanti riconoscimenti di critica e di mercato grazie al suo suono, solido ed etereo al tempo stesso.
Il periodo software
È ormai chiaro che Dave Smith ha sempre maneggiato con disinvoltura sia la tecnologia analogica che quella digitale, senza avere particolari preclusioni verso quest’ultima. Non deve quindi stupire che ci sia ancora lui dietro uno dei più importanti, e nel contempo misconosciuti, soft-synth della storia: Smith fu infatti presidente della Seer Systems, l’azienda che sviluppò il primo sintetizzatore software multisintesi per la piattaforma PC, denominato Reality.
In effetti il Reality era un prodotto musicale autonomo comparso nel 1997, ma la sua storia era cominciata qualche anno prima con lo sviluppo da parte di Seer Systems di un sintetizzatore software per Intel e successivamente con la concessione della licenza a Creative Labs per alimentare 32 delle 64 voci della scheda Sound Blaster AWE 64 (quelle appunto generate in software, mentre altre 32 erano gestite direttamente dall’hardware della scheda). L’alleanza con Creative permise a Seer Systems di licenziare oltre dieci milioni di pezzi, ma è chiaro che stiamo parlando di prodotti informatici da pochi dollari l’uno, e non di strumenti musicali completi.
Va invece evidenziato come Dave Smith non abbia mai ceduto alla tentazione di sviluppare versioni virtual delle sue creazioni del periodo Sequential: le varie emulazioni di Prophet-5, Prophet VS e Korg Wavestation che sono tuttora in commercio sono infatti dovute ad altri produttori, e per queste vi rimando all’apposito incorniciato.
La Dave Smith Instruments
Nel 2002, dopo aver aiutato l’amico Roger Linn a sviluppare la sua AdrenaLinn (strano connubio di processore per chitarra e drum machine), Dave Smith riscopre il desiderio di progettare un sintetizzatore hardware. Come lui stesso dichiara dalle pagine del suo sito, dopo l’esperienza di Seer Systems, Dave era stanco di prodotti basati su computer e, pur non mettendo in dubbio che il futuro appartiene a loro, desiderava il divertimento che un progettista può ricavare da “un hardware dedicato che si può toccare e tenere in mano”. Con molta franchezza Dave Smith evidenzia anche che i soft-synth in commercio sono nel frattempo diventati troppi, che sono affetti dalla pirateria e che quindi l’hardware costituisce l’unica vera “chiave di protezione”. Nasce quindi il progetto dell’Evolver, un synth monofonico in formato table-top destinato a essere venduto a circa 500 dollari con il marchio Dave Smith Instruments (DSI): è evidente che per il suo rientro Dave non vuol fare il passo più lungo della gamba e che i fallimenti di Sequential, Moog, Rhodes/Chroma e Oberheim hanno ben insegnato qualcosa. L’Evolver vuol essere qualcosa di nuovo perché, come lo stesso Dave mi disse personalmente a Francoforte l’anno scorso, lui non ha intenzione di clonare se stesso ma piuttosto di proporre prodotti sempre diversi e innovativi. A ben guardare però, l’Evolver è un azzeccato mix di vecchio e nuovo, più che uno strumento radicalmente innovatore: a due oscillatori analogici si affiancano due oscillatori digitali con le stesse wavetable a 12 bit del Prophet VS. La generazione è completata da generatore di rumore bianco, possibilità di sync sugli oscillatori analogici, FM e modulazione ad anello su quelli digitali. Il filtro passa-basso stereo è un circuito analogico basato su chip Curtis, è risonante e può lavorare a 12 o 24 dB/Oct, mentre un filtro passa-alto stereo a quattro poli è realizzato in tecnologia digitale. La presenza di filtri stereo è una delle caratteristiche chiave nel definire il suono aperto e movimentato dell’Evolver.
Le modulazioni sono gestite da tre ADSR e quattro LFO, mentre le particolarità vengono da due linee di feedback digitale (una per canale) con frequenza e profondità di modulazione regolabili, nonché da due delay (uno per canale) a tre tap modulabili separatamente. L’anello di feedback dei delay, oltre che per via digitale, può richiudersi anche per via analogica passando attraverso il VCF. Un circuito di distorsione digitale può essere messo a monte o a valle della sezione analogica. L’unità è completata da un sequencer a 16 step su quattro righe indipendenti. Con questo arsenale di possibilità, nessuna veramente inedita ma nessuna mai implementata in maniera tanto comprensiva in un unico strumento, il suono dell’Evolver è molto vario e ricco. Il nome rispecchia il carattere dello strumento, che in taluni passaggi si fa fatica a credere monofonico, ma oltre che sequenze turbinanti e varie clangorosità digitali è possibile estrarre anche più tradizionali suoni di lead e basso-synth. Per chi proprio non può fare a meno della polifonia una funzione della logica di bordo permette di mettere in stack più Evolver e ottenere un synth polifonico la numerosità delle cui voci è limitata solo dal borsellino del proprietario. Ma dietro l’angolo c’è già il PolyEvolver…
PolyEvolver
Presentato a fine 2003 e apparso in pubblico per la prima volta al NAMM del gennaio 2004, il PolyEvolver è un rack 1U al cui interno sono racchiusi quattro Evolver, ciascuno con uscite audio indipendenti. Lo strumento può lavorare da polysynth, oppure come stack di quattro monofonici indipendenti. L’editing è da pannello, ma appare assai più comodo ricorrere a un Evolver monofonico che può essere impiegato nella duplice veste di superficie di controllo ed expander per una quinta voce di polifonia. In alternativa è possibile impiegare un editor software fornito in dotazione, con tanto di gestione grafica degli inviluppi e delle waveform digitali. Il PolyEvolver non introduce nessuna sostanziale innovazione nell’architettura, ma il fatto di avere la polifonia cambia radicalmente l’aspetto di alcuni suoni. Non mi stancherò mai di ripetere infatti come lo stessa patch eseguita in mono o in poly assuma significati completamente diversi. Tornando al PolyEvolver, la presenza di quattro sequencer separati (uno per voce) rende la macchina veramente “mossa” e unica nel panorama sonoro attuale, a meno di non ricorrere a programmazioni custom di modulari.
Dopo l’apparizione del PolyEvolver a rack, è il turno della versione a tastiera: questa debutta a inizio 2005 e da un punto di vista visuale sembra francamente il Prophet-5 degli anni 2000. Il pannello è tutto giocato sui toni azzurri dei modelli DSI precedenti, le wheel traslucide con retroilluminazione blu sono forse state “rubate” al Voyager di Bob Moog, ma quei fianchetti di legno e le dimensioni importanti come oggi non si usano più ci riportano dritti filati a un’epoca in cui i synth avevano costi importanti ma nel contempo erano oggetti importanti.
Alla fine dell’analisi del PolyEvolver mi ritrovo con una riflessione: questo non è uno strumento per qualunque tastierista, un polysynth buono per tutte le stagioni come forse poteva essere il Prophet-5 ai suoi tempi. Oggi la tecnologia è cambiata e il mercato offre sintetizzatori per tutti i gusti (sonori): lo strumento universale non esiste più, se non sotto il cofano satinato di qualche workstation giapponese che grazie al campionamento emula l’emulabile. Il professionista che voglia costruirsi un proprio set-up di riferimento è quindi “costretto” a scegliersi tre, quattro, cinque macchine con cui allestire il complesso della propria tavolozza timbrica, e non esiste una ricetta buona per tutti, un mix predefinito da consigliare. Insomma, sono finiti i tempi del Minimoog poggiato sul piano Rhodes a soddisfare i bisogni di chiunque. In questo panorama il PolyEvolver è uno strumento assai interessante per gli appassionati del suono analogico progressivo, per coloro che non cercano un semplice clone delle macchine vintage ma vogliono esplorare nuovi territori rimanendo nel contempo ancorati a un suono vivo e organico (brutta parola, tra l’altro molto di moda, ma questa abbiamo…). Il carattere selvaggio del PolyEvolver lo renderà facilmente utilizzabile dagli adepti di Nine Inch Nails e di tutto il filone gotico/industriale, mentre il suo lato più morbido potrebbe soddisfare i discendenti di Peter Gabriel e chi in generale cerca uno strumento elettronico che abbia comunque un’anima. Il PolyEvolver non è invece uno strumento grassissimo, per cui lo vedo meno adatto alla house, all’hip-hop e alla musica più commerciale, che da sempre si nutre di suoni opulenti e “facili”. Capisco l’imbarazzo che, tra le righe delle loro recensioni, hanno disseminato i miei colleghi americani e inglesi: da Dave Smith tutti si sarebbero aspettati uno strumento da accogliere con ovazioni entusiastiche e incondizionate, ma lo ripeto le cose sono cambiate e oggi è meglio avere personalità che ecumenismo. Per questo apprezzo il PolyEvolver, strumento forse non facile da comprendere e non utilizzabile in tutti i contesti, ma comunque dotato di un bel suono, di una bella personalità e di tante cose da dire.
I progetti di Dave Smith in virtual
Come accennato nel testo dell’articolo, Smith non ha mai dimostrato interesse nel realizzare versioni virtuali dei suoi progetti vintage, ma in compenso a questo hanno pensato altri: uno dei primissimi sintetizzatori software ad apparire è stato infatti il Pro-five della tedesca Native Instruments. Correva l’anno 2000 e la tecnologia dei soft-synth non era ancora particolarmente matura: il Prophet virtuale in formato VST, acclamato subito da troppi incauti nostalgici come “un’esatta replica dello strumento originale” suonava in realtà in maniera non troppo convincente e soprattutto era completamente privo di quel calore analogico tipico del Prophet.
Ad ogni modo Native andò avanti a implementare il progetto, e le successive apparizioni del Pro-52 e Pro-53 aggiustarono parzialmente il tiro, aggiungendo inoltre feature non presenti nella macchina hardware quali un filtro passa-alto, una completa dotazione effetti e un’interfaccia utente estesa. Ho recentemente rivalutato il Pro-53 perché ha un suono di sapore sicuramente analogico con però un’impronta chiara e pulita che lo rende immediatamente identificabile come synth numerico. La fedeltà al modello originale non sarà elevatissima, ma lo strumento è comunque molto ben utilizzabile in diversi contesti, colora e “non sporca”.
Il Prophet-5 è stato emulato anche da Creamware, prima con una versione per la sua piattaforma Scope e per il mainframe Noah (si tratta del plug-in Profit-5) e infine con uno strumento hardware dedicato (Profit-5 AFB) che sta debuttando sul mercato giusto di questi tempi: l’algoritmo di base è sempre il medesimo e purtroppo non ho mai avuto occasione di giudicarlo compiutamente.
Appare però interessante la versione AFB che propone un modulo sonoro stand-alone con tutti i controlli hardware sul pannello, sei voci di polifonia e un prezzo inferiore ai 1000 Euro.
Sempre da Creamware è giunta qualche anno fa una replica del Prophet VS, ancora per Scope e Noah: il plug-in si chiamava Vectron e proponeva tutte le waveform del VS e un’interfaccia utente molto simile. Il suono, comunque interessante, non era però dotato dello stesso grado di classicità ed eleganza, pur risultando valido di suo. Assai più fedele è stata la replica del VS apparsa recentemente a opera della statunitense General Vibe col nome di VectorSector: dietro questa sigla sconosciuta si cela Joshua Jeffe, ovvero il tecnico che in Sequential Circuits scrisse il firmware del VS e coniò il termine Vector Synthesis. Il VectorSector è un plug-in VST per PC e Mac che espande le caratteristiche dello strumento originario offrendo polifonia fino a 16 voci, una matrice di modulazione estesa, 100 preset che ricreano quelli del VS.
La demo che ho scaricato da Internet suona veramente bene, digitale ma organica e presente al punto giusto, con quel non so che di vivo e reale che era naturale appannaggio dei synth Sequential, ma che in genere risulta materia sconosciuta sui soft-synth. Peccato però che General Vibe non abbia mai risposto alla mia richiesta di ulteriori informazioni, il che non mi fa ben sperare per future implementazioni del progetto.
Chiudiamo questa carrellata con la rinascita in forma virtuale del Wavestation: si tratta di un prodotto ben noto, rilasciato l’anno scorso dalla stessa Korg all’interno della Legacy Collection. I “soliti incauti” (probabilmente gli stessi che hanno accolto acriticamente il Pro-five) si sono subito affrettati a dire che, essendo il Wavestation un synth interamente digitale e coincidendo il produttore dell’hardware originale con quello della virtualizzazione software, la WS Legacy non poteva che essere “assolutamente identica” allo strumento di partenza.
Un mio personale test a confronto ha permesso di appurare che così non è, un po’ perché la sampling rate delle due versioni è diversa, un po’ perché lo stadio analogico di uscita della macchina hardware evidentemente ci metteva del suo. Il WS Legacy suona comunque molto bene, rappresenta lo strumento originale al 97%, fino ad essere indistinguibile da esso in numerosi casi reali, e in più offre grandi migliorie nel campo dell’interfaccia utente e della programmazione. Un bel prodotto, insomma.
Fast-forward al 2020
Fin qui il mio articolo scritto nell’agosto 2005, mentre quelle che seguono sono considerazioni scritte nell’ottobre del 2020 a seguito della reissue del Prophet-5. È davvero interessante notare che da allora qualcosa è cambiato ma in fondo molto è rimasto inalterato.
Anzitutto il MIDI è finalmente arrivato alla versione 2.0 ma questa stenta ancora a diffondersi nelle macchine di reale produzione, a testimonianza della validità del progetto originale che è ancora perfettamente funzionale tutt’oggi.
Smith è tornato in possesso dei marchi Prophet (già a fine anni ’00) e Sequential (nel 2015) e quindi da due anni la Dave Smith Instruments – DSI ha ripreso l’antico e affascinante nome di Sequential.
Dopo il PolyEvolver il maestro californiano – nel frattempo coadiuvato anche da progettisti più giovani – è tornato ben presto agli analogici classici come il polifonico Prophet’08 (2008) e la linea dei monofonici Mopho da esso derivata. Recentemente il P’08 è stato oggetto di un restyling che lo ha trasformato in REV2. L’amore per le wavetable si è invece manifestato nuovamente col Prophet-12, synth ibrido che riprende molti dei concetti del mitico Prophet VS, e con il monofonico Pro-2. Quest’ultima macchina, in fondo molto sottovalutata, è importantissima per il suo valore-simbolo: qui i quattro oscillatori a wavetable del P-12 si incontrano con due VCF presi di peso dal passato, il 24 dB/Oct del Prophet-5 e il 12 dB/Oct a stato variabile (SVF, da State Variable Filter) dei moduli SEM di Tom Oberheim. L’adozione esplicitamente dichiarata di questi due filtri vintage da parte di un progettista che fino ad allora aveva dichiarato di voler solo guardare avanti è un segnale importante per le direzioni che avrebbero preso i futuri prodotti DSI/Sequential.
Non è quindi un caso se poco tempo dopo Dave Smith annuncia il nuovo Prophet-6 come erede del P-5, e l’OB-6 costruito in collaborazione con lo stesso Oberheim che ripropone su un polifonico moderno il mitico SVF degli anni ’70.
La produzione di Dave Smith arriva poi all’oggi col recentissimo monofonico Pro-3 che è una macchina eccezionale in quanto fonde in sé due VCO analogici, un oscillatore a wavetable che riprende le esperienze VS e Wavestation, il filtro del P-6, quello dell’OB-6 e un terzo VCF Moog-inspired.
È “quasi” tutto, visto che abbiamo dovuto trascurare il sampling-synth Prophet-X/Prophet-XL, la drum machine Tempest sviluppata in partnership con l’amico Roger Linn e recentemente ritirata, nonché il contributo di Smith alla linea Toraiz di Pioneer DJ (il mono AS-1 e il sampler SP-16).
Insomma, Dave Smith sembra più in forma e in attività che mai, e col lancio del Prophet-5 Rev4 del 1 ottobre 2020 pare davvero che il progettista californiano abbia chiuso il cerchio di una carriera formidabile.
Ma conoscendo Smith, non si fermerà assolutamente qui.